Approfondimenti storici sul Castello di Sammezzano

by savesammezzano

Il Castello di Sammezzano è un palazzo realizzato in stile eclettico che sorge all’interno di un complesso costituito da 14 strutture, tutte situate dentro un parco di quasi 190 ettari, in località Leccio, nel comune di Reggello (Firenze). L’edificio che vediamo oggi è il frutto della geniale mente del marchese Ferdinando Panciatichi Ximenes D’Aragona, che, nella duplice veste di committente e architetto, sulla scia della corrente dell’Orientalismo divampata in Europa all’inizio del 1800, nella seconda metà del secolo ampliò e trasformò completamente la preesistente fortezza seicentesca.

Nel 1839, Emanuele Repetti descrive il Castello di Sammezzano (già proprietà di Ferdinando) nel suo Dizionario Geografico Fisico Storico della Toscana, come una villa signorile posta “nel popolo di S. Salvatore al Leccio”, fra Rignano sull’Arno e Incisa, dominante una vasta tenuta delimitata da “le sorgenti del torrente Chiesimone e quelle del Licono di S. Ellero, sulla pendice meridionale del monte di Vallombrosa […] la quale abbraccia intorno a 7000 sfiora di terreno lavorativo, boscate e a pastura con 26 o più poderi, e una cascina”.

Varie erano state le sorti della tenuta prima del passaggio di proprietà al Marchese. Costruito sui ruderi di un fortilizio romano (la storia racconta che nel IX secolo vi trovò ristoro Carlo Magno) ad opera della nobile famiglia fiorentina dei Gualtierotti, il Castello di Sammezzano passò agli Altoviti e successivamente ai Medici. Giovanni Jacopo dei Medici, duca di Marignano, lo restaurò e lo trasformò in dimora principesca. All’inizio del ‘600 la tenuta fu venduta alla famiglia Ximenes, e restò nelle mani di essa fino al suo ultimo erede diretto, Ferdinando. Alla sua morte, avvenuta nel 1816, la proprietà passò al nipote, Ferdinando Panciatichi Ximenes d’Aragona.

Prima del passaggio di proprietà a Ferdinando Panciatichi, l’edificio manteneva le sue caratteristiche di palazzo fortilizio: si trattava di un edificio compatto e dalla forma regolare, a cui saranno addossati successivamente nuovi corpi di fabbrica.

Il Castello di Sammezzano prima della sua trasformazione

Nonostante le poche testimonianze dell’epoca, i primi interventi operati dal Marchese possono essere datati tra il 1843 ed il 1853, anno che corrisponde alla prima data riportata nelle iscrizioni delle sale. Tale trasformazione rappresenta un eco della fortuna incontrata in Europa tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo dalla rielaborazione di elementi architettonici e motivi ornamentali propri dei monumenti islamici di periodi e paesi diversi, dalla Spagna, all’India della dinastia Moghul, all’Iran.

In quegli anni, studiosi, viaggiatori ed editori avevano offerto al pubblico una ricca documentazione sulla cultura e l’architettura degli arabi in Spagna.

Molti testi furono dedicati all’Alhambra di Granada, che acquisì in quegli anni una enorme fortuna figurativa e non solo. La fortezza andalusa era infatti studiata e rappresentata non soltanto come insieme di elementi recuperabili in chiave “pittoresca”, ma anche come testimonianza di una cultura e di un’epoca. Delle opere dedicate all’Alhambra nella prima metà dell’800, la più importante fu senza dubbio “Plans, Elevations, Sections, and Details of the Alhambra” di Owens Jones, un testo edito in due volumi nel 1842 e nel 1845, che presentava un’ampia serie di tavole con piante, sezioni e dettagli del monumento. La sistematica, attenta e capillare ricognizione dell’edificio nasceva non solo da una necessità documentaria, ma anche dalla volontà di presentare minuziosamente gli elementi decorativi ed i particolari strutturali, mirando a riscattare le arti minori e applicate. E’ certo che Ferdinando fosse informato dell’esistenza del testo di Jones, non solo per la frequentazione della cultura internazionale nella Firenze contemporanea, ma anche per la presenza del testo nel Fondo Palatino della Biblioteca Nazionale di Firenze, e che questo sia stato determinante per la realizzazione dei lavori a Sammezzano.

Ferdinando si lanciò nella sua grandiosa impresa con assoluta certezza, per dar vita non tanto a ciò che oggi chiameremmo un folle sogno, ma ad un esempio di riproduzione filologicamente fedele, sostenuto da una sicurezza positivista nelle possibilità intellettive e materiali dell’epoca e nelle capacità razionali dell’uomo, in grado di superare le difficoltà contingenti. Allestì nel parco una fornace per la fornitura di materiale edilizio, evitando una sterile ricerca sul mercato del tempo.

L’intervento si concentrò in primo luogo sugli interni della villa, e più precisamente sugli ambienti del primo piano. Solo in un secondo tempo gli interventi si rivolsero ai prospetti, allo studio dell’ingresso e agli annessi del parco. Si può accertare la realizzazione, fra il 1853 e il 1873, del vestibolo (sala d’ingresso), del grande ottagono bianco (Sala da Ballo), della cosiddetta Sala degli Specchi, dei corridoi che portano al piccolo ottagono dorato e alla sala d’attesa, di questa e forse anche della Sala dei Pavoni. Guardando la pianta del piano monumentale, e considerando lo spazio rettangolare del vestibolo come il centro dell’intera composizione planimetrica, si può pensare al completamento di tutto il lato posto alla sinistra dell’ingresso, e di fronte ad esso, entro il 1873.

Le iscrizioni presenti in molte delle stanze vengono in aiuto nella datazione delle stesse: la realizzazione del vestibolo può essere datata al 1853 (“questa sala inventò ed eseguì il marchese Ferdinando Panciatichi Ximenes d’Aragona l’anno di nostra salute 1853”), la Sala da Ballo al 1863 (all’interno della cupola sovrastate una lapide riporta questa data), il corridoio fra la sala degli specchi e l’ottagono dorato al 1870 (“Pudet dicere sed verum est publicani scorta – latrones et proxenetae Italiam capiunt vorantque nec de hoc doleo sedquia mala – omnia nos meruisse censeo anno domini MDCCCLXX”: “Mi vergogno a dirlo ma è vero, esattori, prostitute, ladri e sensali tengono in pugno l’Italia e la divorano. Ma non di questo mi dolgo, ma del fatto che ci siamo meritati i nostri mali. Anno del Signore 1870”).

La composizione planimetrica si snoda intorno al vestibolo centrale in una intricata sequenza di sale e di atrii, di archi e di colonne, creando un risultato straordinario, così descritto da M.C. Tonelli [1] :  “ogni atrio, ogni corridoio, sono caratterizzati dalla più ampia libertà nell’accostamento degli ornati, sfruttano la sintassi decorativa del linguaggio moresco. Il risultato risponde all’arte islamica che persegue nei decori un’armonia formale definita – oltre che dalla rispondenza alle necessità costruttive – dall’equilibrio dei contrasti fra linee rette, inclinate e curve, dalle proporzioni cromatiche e dall’adeguamento del colore allo sviluppo della struttura. Dal pavimento al soffitto si alternano tessere di mosaico, piastrelle coloratissime, ricami di gesso, iscrizioni, archi a ferro di cavallo, colonne dai più vari capitelli, rosette, nicchie con vasi e coperture realizzate ora con stalattiti terminanti con specchietti, ora con spicchi di stucco suddivisi in piccoli esagoni chiusi da vetri colorati, ora con ventagli, ora con ricercati piatti in ceramica: in una geometria accuratissima e in un calibrato gioco di referenze”.

I prospetti furono successivamente realizzati con un rivestimento in laterizio ed un fregio che corre intorno alle aperture. La facciata orientata a nord-est, detta facciata lunare, è completata con il grandioso corpo della torre annesso al centro. Questo servì per inglobare alla preesistente terrazza del primo piano due ampie gradinate, che costituirono il nuovo ingresso principale della villa, che già introduceva i visitatori nel viaggio verso l’Oriente. Vi si trovano infatti elementi architettonici di ispirazione indiana, in particolare grande iwan al centro del prospetto, lo spazio coperto caratterizzato dall’apertura ad arco, che costituisce l’ingresso principale. Una lapide all’interno della torre porta la data del 1866, un’altra, alla sua sommità, quella del 1889, anno che si può considerare l’ultimo in cui siano stati realizzati dei lavori dal marchese Panciatichi che si spense pochi anni dopo, nel 1897.

All’interno del parco di Sammezzano trovano dimora 57 esemplari di sequoie adulte alte 35 metri che, insieme alla “Sequoia gemella” di quasi 60 metri, la quale fa parte dei “150 alberi di eccezionale valore ambientale e monumentale” dei beni d’Italia. Il parco è ancora oggi famoso per le rarità botaniche allora introdottevi, ma poco si conosce del suo progetto originario, data la mancanza di documentazione ad esso relativa.

I lavori al parco iniziarono probabilmente in concomitanza con quelli edilizi. Un articolo della “Gazzetta di Italia” di quegli anni descrive infatti la ristrutturazione del giardino antistante la villa al fine di crearvi due grandi viali d’ingresso: “Assai lunge ancora dal palazzo incomincia il parco che d’ogni intorno lo ricinge: ivi l’opera dell’uomo nella disposizione e nella cura delle piante corregge continuamente la natura senza che l’artifizio apparisca”. Se ne deduce che l’impianto doveva in qualche modo riprendere la tipologia del giardino detto all’inglese, cioè di un parco irregolare che imita, abbellendola, la natura e rifugge da ogni composizione artificiosa. Un’arte del giardino che si proponeva quindi lo stesso scopo della pittura e della scultura, e delle così dette arti imitative.

La cultura botanica di Ferdinando non appare tuttavia documentata, a differenza di quella di suo nonno, Niccolò Panciatichi, di cui erano famosi il giardino sulla via Bolognese, la raccolta di piante esotiche e rare, nonché gli orti sperimentali per Io studio delle erbe utili in medicina. Gli unici accenni che si hanno sulla cultura botanica di Ferdinando riguardano l’incarico conferitogli di far parte della commissione per la promozione e incremento dell’Orticoltura in Toscana, nonostante che egli stesso non si stimi “scienziato nell’arte, ma semplice amatore”. Nel suo giardino (probabilmente quello del palazzo di Borgo Pinti) vengono tenute le prime due esposizioni della Società Toscana d’Orticoltura, nel 1852 e nel 1855, ed in occasione della seconda Ferdinando, come vice presidente della società, tenne breve discorso in cui incoraggiava i suoi concittadini ad incrementare il patrimonio boschivo. Nelle successive esposizioni lui stesso presentò alcune specie da lui introdotte in Toscana e coltivate a Sammezzano.

Risulta abbastanza scarna la documentazione su ciò che era preesistente al castello, così come le testimonianze sul castello coeve alla trasformazione operata da Ferdinando. Questo è in gran parte dovuto a una precisa volontà del Marchese stesso, quella di non rendere visibile a chiunque la sua opera, al fine di evitare di sottoporla a facili giudizi. Nel clima artistico della Toscana post-unitaria, infatti, dove il recupero stilistico del passato era funzionale al dominante eclettismo architettonico, l’opera di Ferdinando poteva essere letta in maniera superficiale semplicemente in chiave di revival sentimentale. Come già detto, la sua impresa fu motivata piuttosto da una concezione positivista della storia e dalla volontà di dimostrare le infinite possibilità della riproducibilità tecnica del tempo.

La vera peculiarità della trasformazione di Sammezzano, infatti, è che non si tratta di uno di quei recuperi pittoreschi e voluttuosi cari alla cultura del tardo Settecento o del tardo Ottocento, ma della fedele rivisitazione di un codice stilistico e di una sua trascrizione per così dire “anastatica”, come definita ancora da M.C. Tonelli, e scevra da ogni rivisitazione sentimentale.

Non a caso la villa viene visitata in occasione del IV Congresso Orientalista, tenuto a Firenze nel 1878, dai partecipanti ai lavori, gli unici che nell’operato del Panciatichi potessero individuare lo studio storico più che l’arbitraria fantasia, l’esemplarità stilistica più che l’originalità del genio. Ferdinando tentava di affrancare il suo intervento architettonico dalla moda del momento, che chiedeva all’architettura effimera del chiosco o del padiglione il riferimento ad uno stile esotico ed epidermicamente adattato alle necessità pubblicitarie dell’edificio. I propositi che avevano mosso Ferdinando volevano invece indicare ancora un ottimismo nelle capacità razionali dell’uomo e nell’abbinamento di storia dell’arte e di storia della tecnica.

[1] Maria Cristina Tonelli, “Alhambra Anastatica”, FMR Franco Maria Ricci n. 4, giugno 1982

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